Das Naturrevier der "Torbiere Sebine" Few notes in English Introduction a la R.N. des  Tourbieres du Sebino



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Few notes in English Introduction a la R.N. des  Tourbieres du Sebino Das Naturrevier der "Torbiere Sebine"
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Chi di noi oggi giorno, si dedica all'orto o al giardino o cresce gerani sul balcone di casa, sa cos'è la torba. Questa sostanza, parente povera dell'antracite, ha una sua storia. Si forma in zone più o meno profonde e acquitrinose, in strati misti ad argilla e sabbia. E' il risultato della decomposizione solo parziale dei residui vegetali situati in quella zona. Soprattutto la cellulosa, composta da carbonio, ossigeno ed idrogeno,in un ambiente privo dì ossigeno come in uno stagno, non si decompone del tutto come avviene solitamente ad opera dei batteri e dei funghi. L'acqua stagnante crea condizioni anaerobiche tali da impedire la completa decomposizione.La conseguenza di tale processo aumenta a sua volta il fenomeno che negli anni e secoli, forma un deposito torboso.

Torbiera

Si hanno tre tipologie di torbiere: montana, litoranea e intermorenica. La montana, formatasi in acque povere di sali (piovane e di scioglimento neve) non è in grado di neutralizzare i prodotti derivanti dal metabolismo microbico presente, formando così un ambiente molto acidocrthe non consente un'attività vitale e quindi la decomposizione non si evolve. In queste torbe sono presenti ed identificabili resti vegetali di una certa consistenza, soprattutto sfagni.
In quelle litoranee (foci dei fiumi) e intermoreniche come la nostra, il grado di acidità dell'ambiente è più contenuti e quindi la decomposizione è più marcata senza però avvenire del tutto.La vegetazione base è quella del canneto, tife, giunchi e carici.

L'evoluzione in torbiera

In un laghetto originrio,l'attività continua della vita animale e vegetale porta una lenta ed inesorabile trasformazione dell'habitat.
In questa evoluzione, si inserisce anche il ciclo stagionale dell'acqua che sia in estate che in inverno, è soggetta ad una stratificazione di temperature che favoriscono o inibiscono le attività microbiche e vegetali presenti e fluttuanti.

A cavar torba en Làma

Si iniziava verso marzo e si proseguiva fin verso agosto, a cavar torba.
Solitamente si componevano le squadre, gruppetto composto da tre persone. Ognuna di esse aveva un compito ben preciso e anche una paga diversa commisurata all 'esperienza, alla fatica ed al disagio che l'estrazione cornportava. L'accordo col proprietario era di 6 Lire al m3. La squadra poi, si frazionava il guadagno così: L. 2,20 al scaàdur, càvatore, L. 2 a quello che tagliava e caricava e L. 1,80 a quello che trasportava e sistemava la torba.
Poche e modeste erano le attrezzature necessarie: la cargiola, la cariola era munita di una ruote in ferro. Si trattava di un cerchio ottenuto da un piatto in ferro largo 8+10 cm. in cui vi erano inseritii raggi che si univano al perno centrale. Questo, veniva fissato ai due lunghi bracci in legno su cui poggiava un ampio piano di assi con una sola sponda anteriore. Per il taglio della torba si usavano due tipi di coltelli: uno dalla forma di un rettangolo allungato fino a 40-50 cm., serviva a dividere la colonnetta di torba appena scavata, in tre parti uguali. L'altro, più piccolo, dalla punta a seto acuto, veniva usato per sezionare ulteriormente ognuna delle tre parti in due in modo da ottenere dei cubetti (15x15 cm.) di torba. L'attrezzo più importanete rimaneva el fèr, il ferro. Era una piccola struttura realizzata con del piatto in ferro di 3 cm. di larghezza. I pezzi opportunamente piegati ad U, davano come risultanza un telaio di una gabbia rettangolare di cm. 15x15x1OO di profondità. Il ferro ad U di testa, venendo a contatto con la torba, doveva essere chiaramente tagliente. Andava quindi, di tanto in tanto limato con un triangol (lima triangolare). Questa struttura veniva inserita su un lungo palo tondo di legno. El vècc Mangiarì, il vecchio Mangiarini, falegname locale, abile anche nelle costruzioni di carri, torniva il travetto di legno speciale (l0xl0) detto pispai (una conifera molto resistente).
Il legno terminava a punta come la bocca d'un luccio, forse per questo che veniva anche chiamato los (luccio). Questa punta speciale veniva inserita tra due lamine di ferro portanti la gabbia di taglio. Il manico lungo fino a cinque metri doveva avere, montato sul ferro, una leggera curvatura in modo tale che le estremità risultassero in asse. Individuato l'appezzamento da scavare, bisognava preparare il terreno. La prima fase, che avveniva anche un mese prima dello scavo (febbraio), consisteva nella speladura, spelatura, cioè il terreno andava pulito prima dalla vegetazione presente, e poi si asportava il materiale superficiale sino a raggiungere il livello torboso. Questa operazione variava da sito a sito. Si passava da poche decine di centimetri fino al metro e oltre.
Dopo tale fase, sì otteneva la banchina, la banchina un piano di circa 6x3 m.. Il terreno asportato veniva chiaramente buttato negli specchi d'acqua ottenuti con i precedenti scavi. Capitava però di dover scavare a ridosso dell'acqua. In tal caso si faceva el casù, il cassone. Si procedeva con la tecnica della spelatura ottenendo alla fine una zona ribassata rispetto al terreno circostante, con le quattro sponde, come un cassone. A questo punto si sfondava leggermente la sponda vicino all'acqua per consentirle di entrare. Ciò facilitava lo scavo ammorbidendo ulteriormente la torba e aiutando la risalita del ferro al momento dell'estrazione. Su un lato della banchìna, si sistemavano delle assi su cui prendeva posto lo scavatore il quale cominciava ad affondare l'attrezzo nella torba imbevuta d'acqua. Forza e precisione erano le doti di un bravo cavatore. Sì faceva così la prima passata di profondità d'un metro lungo tutto il lato della banchina. Ogni ritiro del ferro, era accompagnato da acqua e fanghiglia Si ricominciava poi da capo ad una profondità più bassa e così via fino al raggiungimento del fondo dello strato torboso. A volte, sull'asse dove stava lo scavatore, si facevano le tàche, le tacche, piccole incisioni di riferimento a distanza di 15 cm. (la larghezza del ferro). Ad ogni ritiro del ferro, veniva estratto un pane di torba fradicia di l5xl5xlOO cm. che lo scavatore con un colpo di braccia liberava dall'attrezzo depositandolo sulla banchina da scavare. Questa era detta 'na sluserada (da los, luccio). Il primo servidur, servitore, aiutante, col coltellaccio , curtelàs lo sezionava in tre partì che caricava sulla cariola. Il secondo aiutante o caàl (cavallo) le portava all'asciutto disponendole ben in fila. La disposizione non era casuale. El mur, il muro veniva composto da un corso su cui ne se sovrapponeva fino a cinque. Ognuno era sfalsato di metà rispetto al precedente ed al conseguente, come nei muri di mattoni. Le mure, muraglie erano depositi uguali ma di dimensioni più grandi che quindi abbisognavano di più tempo e calore per asciugare.

Era nel mese di Agosto che si terminava lo scavo e si iniziava a laurà, lavorare la torba ormai asciutta. Il proprietario faceva costruire in determinati punti strategici, delle tettoie. Era una semplice struttura fatta di grossi pali portanti un tetto in coppi. Aperta sui lati, consentiva di riparare dalla pioggia il materiale scavato pronto per la vendita. Il percorso centrale della Riserva era l'accesso alle candéle de la tetoia, candele della tettoia. Il termine candéle indicava le zone di escavazione già avvenuta. Sganzèi,derivante forse da scansati, evitati, erano le lingue di terra perimetrali agli scavi su cui si passava. Coi tempo, molti si sono erosi.
Lo stoccaggio della torba secca nelle tettoie avveniva con l'ausilio di grosse barche. Le più grandi, erano la Marco Polo che portava fino a 200 q. di torba secca, e la leggendaria Rossa la Rosa, lunga ben 18 m. e larga 3. Riusciva a contenere 300/350 q. Questa però affondò nel '43 sovraccarica di torba bagnata tanto da farle cedere una sponda e sprofondare nei luogo detto le Tese.
A volte per fare un viaggio e arrivare alla baracca verso Sassabanek, ci volevano ben 3 ore, tre rematori ed un timoniere. Si caricava la torba sul barcone e lo si portava a destinazione. Il mattino successivo, verso le tre o le quattro, lo si svuotava e si ritornava al punto di carica. Così fino al termine dell'operazione. Sul luogo dell'essicazione rimaneva chiaramente della torba sminuzzata o sfaldata che veniva recuperata ed insaccata. Il Marco Polo era in uso ad escavatori di Clusane - Cremignane mentre la Rossa a quelli di Provaglio. Accadeva in certi anni poco piovosi che si facessero scavi anche dopo agosto. In tal caso i pani di torba bagnata venivano stesi su una superficie maggiore e rigirati per consentire una pìù rapida essicazione. Erano comunque operazioni a rischio perchè il tempo non si comanda.
Ogni quindici giorni il capogruppo andava dal proprietario a riscuotere i soldi dovuti e poi, insieme si andava da Giùlia del Gòb, un'osteria di Provaglio in località Pùt, Ponte. Qui si beveva qualcosa insieme, ci si spartiva la paga e si programmava il lavoro da farsi.
Ma oltre alla torba, la Lama forniva altre risorse che vedevano coinvolte anche le donne: i smansì (l'infiorescenza della cannuccia di palude -Phragmites-) e l'erba de scàgna, le lunghe foglie d'un tipo di carice. I primi venivano tagliati a circa 50 cm. dall'apice e composti in mazzi venivano portati a casa cove si bundàa, pulivano togliendo una serie di guaine fogliari che ricoprivano lo stelo. Andavano tutte essicate all'ombra sia perchè non sfiorivano e perchè pesavano di più, visto che poi, venivano venduti a peso.
L'erba invece veniva raccolta dove l'acqua è bassa o affiora o lungo i fossi. Anch'essa recisa alla base andava fatta seccare all'ombra. La raccolta andava fatta in luna buona perchè così rimaneva più resistente alla lavorazione e durevole nel tempo. Ripulita poi dal secco, veniva conservata in piccoli mazzi. Al momento dell'uso, si torcevano alcune lunghe foglie e si intrecciava sul telaio della seggiola con una particolare metodologia.
A Villanova di Bagnacavallo in provincia di Ravenna vi è un museo ed una Associazione Culturale Civiltà delle erbe palustri, in cui sono raccolti tutti gli attrezzi ed i prodotti che in questa località si producevano con la coltivazione sistematica di tutte le erbe palustri quali Cannuccia, tifa, carice, giunco e salice. Con esse ricavavano un'infinità di prodotti di uso comune: borse e borsette, scope, seggiole, stuoie, arelle persino scarpe.
Ogni anno a settembre, dal 9 all'11, si tiene la Sagra in cui si possono ammirare tutte le tecniche di intreccio dei vari lateriali e visitare il Museo che comunque è aperto tutto l'anno. Per informazioni rivolgersi a Maria Rosa Bagnari, tel 0545/ 49191.

a cura di Luciano Peroni

 

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